Diversi sono i soggetti che bevono, diverse le culture e le percezioni che esse sviluppano del bere e diverse, pertanto, le motivazioni. In un processo di avvicinamento e di comprensione del fenomeno dell’alcoldipendenza tra immigrati, è fondamentale partire dalla concezione del bere nel paese di provenienza per chiedersi quali significati queste sostanze assumono nella cultura del paese di origine, e se vengano tollerate oppure bandite. In modo diffuso però, come si legge da analisi specifiche, il migrante si trova “né totalmente presente là dove è presente, né totalmente assente là dove è assente”.
L’ “integrazione” che viene offerta spesso, è meramente economica sul piano del mercato del lavoro e della partecipazione all’uso di beni di consumo, ma è carente dal punto di vista affettivo e sociale.
Il progetto migratorio, così carico di valenze emotive, diventa spesso un percorso obbligato, con un unico senso di marcia, il cui fallimento, reale o immaginario, prefigura il rifiuto e l’esclusione, sia nel paese d’arrivo che in quello di provenienza. Non si devono, quindi, sottovalutare le condizioni psicologiche e la vulnerabilità psichica che, di fronte alle difficoltà del passaggio e insediamento migratorio, possono indurre il soggetto ad abusare di sostanze ed alcol.
Prendendo ad esempio il consumo di alcol in Italia da parte della popolazione peruviana, esso appare legato alle seguenti motivazioni:
Si beve per dimenticare quello che si è perso “lungo il percorso migratorio” a livello familiare, sociale e professionale. Molte persone che arrivano dal paese di origine con un bagaglio culturale medio-alto, vivono “un’ involuzione” dal punto di vista professionale, non essendo riconosciuti, nella società ricevente, i titoli di studio acquisiti o le professioni praticate nel paese di origine. Questo aspetto comporta una sofferenza causata da un crollo dell’autostima, da una perdita della propria identità e dalla difficoltà di definirne una nuova che può sfociare nel ricorso ad un consumo alcolico problematico.
Il bere nel paese di origine ha funzioni aggregative importanti, ma tale pratica inserita in un contesto in cui vengono a mancare i punti riferimento che nel paese di origine fungono da “controllo” (quali ad esempio la struttura familiare, le reti sociali, il lavoro, le tradizioni culturali), può incrementare la tendenza a un uso farmacologico dell’alcol e a problematiche di abuso, con una sorta di effetto “sommatorio”.
L’abuso di alcol viene riferito soprattutto per gli uomini, le cui motivazioni appaiono strettamente connesse alle condizioni di vita in cui si trovano:
- Il cambiamento del ruolo dell’uomo all’interno del nucleo familiare determinato dai processi migratori, vede la figura maschile assumere una funzione subalterna talvolta alla donna, che si inserisce nel mondo del lavoro
- La difficoltà di ridefinire una nuova identità in un contesto in cui vengono a mancare i punti di riferimento sociali, familiari e culturali può portare ad un uso dell’alcol come sedativo rispetto a vissuti di alienazione da una realtà in cui non ci si riconosce più
- La mancanza di contesti aggregativi e di socializzazione pari a quelli del contesto originario, rende il soggiorno nel paese ospitante solitario e frustrante
- Il forte stress lavorativo causato da lavori spesso estenuanti e molto faticoso
Le donne non riscontrano motivazioni simili a quelle degli uomini. Anche se il problema viene comunque percepito dagli addetti ai lavori, in quanto la condizione della donna migrante è molto complessa perché spesso si ritrova costretta a vivere nella totale indifferenza. Da queste ipotesi, si deduce una difficoltà maggiore di accesso ai servizi, accompagnato ad un senso di vergogna molto forte.